Torino, la missione possibile NEL linguaggio politico-amministrativo delle città italiane sta entrando un nuovo termine, che allude a uno strumento (ma forse sarebbe meglio dire a una procedura) oggi in fase di diffusione, il «piano strategico». Il sostantivo, per di più rafforzato da un aggettivo che evoca la visione e la capacità strategiche, dunque di medio periodo, sarebbe di per sé in grado di suscitare qualche timore, se lo si scambiasse per una riedizione della vecchia politica di piano, da tempo estromessa dal lessico degli apparati istituzionali. Ma i piani strategici che sono attualmente all'ordine del giorno potrebbero semmai apparentarsi alla strumentazione e alla logica operativa della pianificazione dei sistemi aziendali ben più che alle ambizioni dirigistiche di incanalare la società e l'economia lungo una direttrice prefissata. Diversamente, non ci si spiegherebbe come mai città così diverse per collocazione, dimensioni e indirizzi amministrativi come Palermo, Cuneo, Barletta stiano procedendo all'elaborazione di un loro piano strategico (mentre Venezia, Firenze, La Spezia, Trento, Pesaro, Varese e Piacenza l'hanno già messo a punto). All'origine di questa tendenza c'è una spinta europea, giacché questa metodologia è stata applicata da grandi città europee come, per esempio, Barcellona. Ma c'è anche l'esperienza maturata in Italia da Torino, che ha definito il proprio piano strategico nel 2000, quando questo metodo di approccio ai problemi della società locale era ancora inedito nel Paese. A cinque anni da quell'esperienza, che ha condotto alla costituzione dell'agenzia Torino Internazionale, sede di incontro fra amministrazioni pubbliche e associazioni d'interesse, è stato avviato e verrà portato a compimento entro il 2005 il percorso per l'approntamento di un nuovo piano, che si propone sia di costituire una verifica delle linee precedentemente intraprese sia di realizzare uno sviluppo e un approfondimento ulteriori degli assi di evoluzione della società locale. L'esempio di Torino serve a comprendere a che cosa possa servire un piano strategico. La Torino di cinque anni fa differiva non poco dall'odierna. Era una città che teneva ben affondate le proprie radici nella storia del Novecento, che le aveva consegnato una primazia industriale. Si trattava, al contempo, di un'eredità importante, ma anche difficile da maneggiare. Era un lascito di quelli che vengono detti, di solito, ingombranti, come ingombranti erano gli spazi dell'area metropolitana torinese che l'industria aveva occupato e aveva da tempo incominciato a ridurre. Nell'immagine dei più, Torino coincideva ancora con la sua industria, ma d'altronde il suo futuro non poteva più essere soltanto manifatturiero. Di qui il carattere aperto che contraddistingue il primo piano strategico, cui ha lavorato uno studioso come Arnaldo Bagnasco, il sociologo che ha più contribuito a interpretare il mutamento dell'area territoriale subalpina. Alla distanza, il merito maggiore che ha avuto il lavoro compiuto nel 2000 sta nell'aver posto dinanzi al sistema locale il ventaglio di opportunità e di alternative che si ponevano alla città con la svolta del secolo. Valse in particolare a offrire alla città una consapevolezza che poteva intraprendere nuove strade per la sua evoluzione e che disponeva di risorse (dalle capacità in campo tecnico e scientifico alle dotazioni culturali alle risorse ambientali) per delineare un futuro che non era già tutto scritto nella sua storia recente. Un rilievo che in seguito è stato mosso al primo piano è consistito nel fare osservare come, pur ospitando molte linee di azione possibili, non considerasse a sufficienza gli assi portanti tradizionali dell'economia metropolitana. Ma in quel frangente era indispensabile, da un lato, far emergere il potenziale di Torino e, dall'altro, familiarizzare la sua comunità alla necessità di innovazioni e di discontinuità . Per quanto concerne i risultati, proprio il processo di discussione fra amministratori e rappresentanti delle varie articolazioni della società torinese ha consentito di avviare un confronto sulle trasformazioni locali fattosi via via più vivace. Certo, ne sono derivati - in specie dopo l'assegnazione delle Olimpiadi invernali, che ha irrobustito non poco le propensioni evolutive della città - anche alcuni equivoci ricorrenti, come la diatriba sul ruolo dei servizi e del turismo come forze motrici dello sviluppo. Ma è cresciuta anche un'attenzione positiva per tutti i fenomeni e gli indicatori che possono testimoniare dell'esistenza, ben più che embrionale, di una Torino al di là degli stereotipi. Il compito di chi parteciperà alla costruzione del nuovo piano strategico appare, insieme, più circoscritto e più arduo. Non è più necessario immaginare un'area metropolitana che comprende anche specializzazioni e capacità nuove e originali rispetto al passato, e tantomeno segnalare l'inevitabilità del cambiamento. Se qualcosa è diventato evidente a tutti, in questi ultimi cinque anni, è che ci troviamo in pieno cambiamento, e Torino in misura maggiore di altre realtà . Non ha più senso, quindi, contrapporre quella che, con una fraseologia un po' logora, si identifica come la «vocazione industriale» della città alla terziarizzazione e al sistema dei servizi. Del resto, non c'è nessuno che pensi più a una società vitale sotto il profilo economico indipendentemente dalla sua qualità della vita. Come è sempre avvenuto, la grande trasformazione si è decisa sopra di noi e ci ha coinvolto. Ciò che adesso appare fondamentale è camminare nella stessa direzione di marcia, possibilmente accelerando il passo, in modo da non perdere posizioni né opportunità . Come città metropolitana Torino gode di non poche condizioni favorevoli. Nella seconda metà del Novecento, ha consolidato in maniera significativa i propri livelli di benessere e ha saputo padroneggiare anche mutamenti sociali che altrove sono stati vissuti in forma più traumatica, a iniziare dall'immigrazione. Il suo tessuto è robusto e non rivela, per il momento, emergenze preoccupanti, secondo quanto confermano gli indicatori più rilevanti. Ma trova di fronte a sé alcuni passaggi impegnativi. Il primo è quello costituito dall'urgenza di elevare il livello di istruzione e di qualità culturale della popolazione. Da questo punto di vista, occorre sapere che il futuro non ha in serbo soluzioni risolutive. La ricchezza della società locale non dipenderà da alcun settore particolare capace di imporsi assicurandosi il primato economico, come è avvenuto con l'auto nel secolo scorso. Al contrario, dipenderà dall'amalgama di tante componenti e dalla versatilità con cui le differenti attività si sapranno integrare e gli operatori interagire. Ma perché questo possa verificarsi, occorrono risorse di conoscenza distribuite, offerta di istruzione e formazione di alta qualità , un maggior numero di lavoratori addetti a processi dove si produce sapere. Non è affatto una missione improbabile per una città che dispone dell'accumulo di risorse e competenze di Torino. Ma ora essa ha bisogno di metterle a frutto fino in fondo. Deve accompagnare compattamente la transizione da un modello in cui la produzione di fabbrica era centrale a un altro in cui predominano procedimenti immateriali e non sussiste più la distinzione obsoleta fra industria e servizi, perché entrambi partecipano dello stesso codice operativo. L'eredità dell'industria e dei suoi luoghi non rappresenta un ostacolo in questo senso, se se ne sapranno sfruttare tutte le valenze. A patto che si riesca a scorgere, per esempio nell'esistenza di una grande area come Mirafiori, un'opportunità su cui costruire nuove prospettive economiche e non il cimitero della produzione industriale di massa del secolo scorso. Se il nuovo piano strategico riuscirà ad accentuare questa consapevolezza, avrà già raggiunto uno scopo. Giuseppe Berta- Lastampa> |
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